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Come creare una narrazione di impresa efficace – Lezione 1

13 Giugno 2025

Trascrizione

Grazie, grazie, buona lezione per modo di dire perché spero che questa sia più una chiacchierata, una testimonianza se vogliamo di questi anni in cui mi sono occupato di storie e ho cercato di trovare sempre i trucchi migliori per poterle raccontare. Ho usato il termine trucco senza vergogna perché di fatto quando parliamo di storie parliamo di illusionismo. Siete mai stati a vedere lo spettacolo di un mago, di un illusionista? Un illusionista non usa trucchi differenti da quelli di un narratore e nei gialli ad esempio è esattamente quello che facciamo. Cerchiamo di distrarvi mentre leggete di qualcosa di divertente o di estremamente tensivo, aumentiamo la suspense, spesso vi facciamo anche un po’ paura, per poi distrarvi dalla soluzione che magari è sotto i vostri occhi. Vi diamo in pasto degli indizi fasulli che gli americani chiamano red herrings, delle ringhe rosse, delle false piste e spesso però non sono false piste logiche ma semplicemente vi mostriamo quello che vogliamo farvi vedere. Ecco, la comunicazione è illusione ma con un passo oltre potremmo dire che è suggestione. Dico comunicazione perché non c’è altra comunicazione se non la narrazione. Possiamo denudare il più possibile il tipo di comunicazione che facciamo ma è sempre una storia quella che raccontiamo. Le storie sono dappertutto. Ho intitolato il titolo nel titolo di questa piccola chiacchierata Era una notte buia e tempestuosa perché credo tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita il fumetto dei peanuts e letto magari qualche striscia con Snoopy. Snoopy ogni tanto prova a vendere uno dei suoi romanzi a un famoso famigerato editore che non compare mai e di solito tutti i suoi romanzi cominciano così. Oggi sulla parte finale della nostra chiacchierata mi piacerebbe tornare indietro e parlarvi di come funziona l’inizio di una narrazione perché di fatto è il lavoro fondamentale che un’azienda, che è un libero professionista e in generale un operatore della comunicazione, deve fare studiare bene l’inizio quando deve avviare una campagna di comunicazione per un’azienda, un brand o un prodotto oppure semplicemente quando deve andare ad aiutare l’azienda a mettere a fuoco la propria vision e la propria mission comunicativa. Direi che Jacopo mi ha già presentato soddisfacentemente, il mio ego è contentissimo, io sono Matteo Bortolotti, mi presento come mi piace presentarmi, nella vita mi occupo di storie, le studio, le racconto e come voi ne consumo tantissime. Queste sono alcune delle cose che ho fatto, delle storie di cui mi sono occupato, alcuni libri che ho firmato perché sono originali, altri libri che ho firmato con nom de plume perché mi sono occupato per tanti anni di adattamento e di questo ne parleremo dopo, quindi mi sono occupato di trasformare libri in film e film in libri e alcune cose che ho fatto per il cinema e per la televisione, vedete l’Ispettore Cogliandro di cui sono fieramente uno zio perché mi sono occupato della sua crescita fino all’età adulta perché sono arrivato a scriverne come sceneggiatore insieme allo straordinario Carlo Lucarelli e a Giampiero Rigosi e ad Andrea Cotti fino alla fine della quarta serie, vedete anche questa rocca più in basso che è il primo museo civico italiano di digital storytelling che è un esperimento che ho portato avanti qui a Pieve di Cento grazie all’amministrazione per le riqualificazioni post-sismo, poi accanto vedete anche il mio indirizzo del profilo personale di Facebook perché la comunicazione deve partire innanzitutto dal nostro privato, quindi sentitevi liberi di chiedermi l’amicizia, il contatto come preferisco dire. Avrei potuto però parlare oggi, cominciare a presentarmi in un modo completamente diverso, avrei potuto usare le tecniche della vecchia comunicazione, la vecchia comunicazione è quella dell’advertising degli anni sessanta che ancora però vediamo riproposta dai guru del marketing italiano che spesso ci vendono consulenze e gruppi segreti di Facebook a centinaia di euro al mese e che hanno questa sorta di atteggiamento muscolare nei confronti del marketing e della vendita, perché l’obiettivo per loro è la vendita. Queste cose si usavano molto nell’ambito del mercato del marketing piramidale degli anni sessanta, hanno cresciuto un’intera generazione di venditori che volevano raggiungere obiettivi, volevano raggiungere numeri e che di solito si ritrovavano a dire fondamentalmente cose che non erano vere. Ecco una comunicazione, una narrazione funziona veramente solo se è autentica, ma che vuol dire che sia autentica? Vuol dire che con delle piccole bugie diciamo delle grandi verità, questo è quello che fa un narratore, questo è quello che succede quando ad esempio leggiamo una favola che di solito è un racconto morale, diciamo una grande verità raccontando delle piccole bugie come ad esempio che non so, le volpi parlano. Ecco Robert McKee che vedete in questa immagine nella slide è stato forse uno dei più grandi formatori della sceneggiatura e del racconto che sia mai vissuto su questo pianeta, molto più grande degli strutturalisti russi e di tutti i grandi narratologi, perché forse meno tecnico ma molto più capace di accogliere le esigenze della sintesi per farci capire che cos’è veramente una storia. Robert McKee ha insegnato a centinaia e centinaia e centinaia di grandi sceneggiatori, vincitori di BAFTA, vincitori di Oscar e non solo, anche grandi romanzieri e moltissimi esperti di marketing strategico, perché? Perché il marketing di fatto è racconto. Allora come funzionava il vecchio mondo dell’advertising? Funzionava con queste tre semplici paroline bragging, promising and manipulating, ovvero come mi sarei potuto presentare io? Bragging, mi vanto, ciao sono Matteo Bortolotti, ho scritto otto romanzi, ho scritto un film da quattro milioni e mezzo di euro con il nipote di Robert Kennedy, Robert Francis Kennedy III, con Alec Baldwin, Giancarlo Giannini, Alessandra Mastronardi, bla bla bla, avrei dovuto continuare, quindi avrei mostrato il mio successo, mi sarei vantato in qualche modo con voi. Poi, promising, vi avrei detto se mi seguirete nelle prossime due ore vi porterete a casa i segreti dei grandi maestri della narrazione e potrete da subito riuscire ad utilizzare questi trucchi che sto per insegnarvi nella vostra comunicazione per avere il successo che io stesso ho e che potete condividere con me fin da subito. E vedete, qui prometto che potrete avere anche voi lo stesso successo di cui mi sono appena vantato e poi vi faccio sentire emozionalmente coinvolti, come se ce l’aveste già. Bragging, promising, manipulating è il vecchio modo di fare advertising e non funziona più. Ecco cosa funziona oggi. Lo vedete tutti? Che cos’è? No, non sto parlando solo di Batman, ma in generale di un esempio classico di quello che ha funzionato nel marketing negli ultimi anni. L’ego ci ha dato una grande lezione. L’ego ha cominciato a strutturare la propria comunicazione e il proprio brand in linea con i tempi che stiamo vivendo. Cioè ha capito che un grande brand oggi è prima di tutto un editore, l’editore di se stesso, e quindi crea valore veramente per se stesso, per il suo brand, attraverso il racconto delle storie. E loro l’hanno fatto creando veramente delle storie con protagonisti, i loro giocattoli, che hanno conquistato il cuore di grandi e di piccini. Soprattutto i grandi della mia generazione che si ricordano di aver giocato con i primi Lego e soprattutto che riconoscono i vari franchise che loro hanno acquisito e che di conseguenza li regalano ai loro nipoti e figli. Oggi impareremo, o meglio, vedete stavo già facendo del promising. Oggi cercherò di chiedermi con voi queste quattro cose. Perché il nostro cervello ha bisogno delle storie? Cos’è una storia e da quali elementi è composta? La vita non è un film ma può diventarlo? E come si prepara l’inizio di una buona storia? Quando intendo che la vita non è un film ma che può diventarlo, non intendo dire che dobbiamo vivere la nostra vita come se fossimo Bruce Willis, però che la vita, in fin dei conti, è estremamente allacciata alla narrazione che noi ne facciamo. Quindi, anche per quel che riguarda la nostra azienda, il nostro lavoro, la nostra stessa autopromozione, come si usa dire oggi, quando noi raccontiamo la nostra vita, quando noi viviamo la nostra vita, in realtà ce la stiamo raccontando e dobbiamo essere in grado di raccontarcela al meglio. Procediamo. Allora, perché ci raccontiamo storie? Cosa c’è dietro questa grande capacità dell’uomo? Intanto, quando è nata la storia? Non lo sappiamo. Sappiamo come è nata. Sappiamo che gli archeologi hanno trovato nelle caverne delle storie disegnate e quindi, di fatto, prima ancora dell’invenzione della parola c’era qualcuno che raccontava storie, storie per lo più di caccia, cosiddette apotropaiche, quindi che in qualche modo cercavano di augurare la buona fortuna ai cacciatori della tribù nelle caverne, disegnate sopra le pareti delle caverne. Le storie nascono con l’uomo e nascono perché l’uomo ne ha bisogno. Ho fatto diverse ricerche negli anni perché una delle mie passioni è proprio la psicologia e perché questa è estremamente legata con l’illusionismo delle storie. Le neuroscienze fin dagli anni 60 hanno cominciato a darci degli indizi su come e perché non possiamo fare a meno delle storie, ma anche senza il bisogno degli scienziati che vi sto per citare, di cui vi sto per raccontare le storie, possiamo capire quanto è importante per noi una storia e, in generale, sederci attorno a un tavolo e parlare. Anche solo, insomma, riportando i nostri ricordi, magari all’infanzia, a quando il nonno ci raccontava le storie di quando era giovane o di quando ci arrivavano i primi ammonimenti dai nostri genitori, attraverso una storia che quasi sempre era la storia morale legata alla loro precedente esperienza. Molte cominciavano con «quando ero piccolo io i fossili saltavo per la lunga», ma questo è un altro discorso. Quello che mi voglio chiedere con voi per prima cosa è se la strada è davvero segnata, cioè noi parliamo di una storia quando sappiamo già come andrà a finire. Sì e no, e per capire bene che cosa succede al nostro cervello quando raccontiamo una storia mi piacerebbe leggervene una. È una storia molto importante per me, è stata una delle storie che più mi ha influenzato quando studiavo come si raccontano le storie e vorrei condividerla con voi oggi perché, per quanto sia una storia molto forte, credo il suo senso sia fondamentale. Ve lo voglio leggere, non so esattamente, forse ho scomodato o ho combinato un mezzo casotto, scusatemi. Allora voi adesso vedete l’anteprima, mi attiva tutto schermo, ci siamo di nuovo, dovreste vedere principalmente il… è saltato tutto, scusate, piccolo inconveniente ad avere la regia da solo, ecco qua, siamo tornati qui, ok ti vediamo, mi vedete e vedete quale vedete dell’anteprima? La strada è segnata, non vedete altro? Aspettiamo qualche secondo perché se hai messo a tutto schermo c’è un po’ di delay. Adesso lo metto a tutto schermo, perdonatemi. Allora scusate un istante, bisogna fare una piccola operazione qua perché non mi funziona. Tanto se vogliamo approfittare per domande, intanto rispondo volentieri anche solo la semplice domanda. Di cercoliandro è geniale, quindi abbiamo una fan di rispettore. Giro molto volentieri il complimento al suo papà e ovviamente accogliandolo in self, cioè l’amico Giampaolo Morelli col quale ho praticamente convissuto per quattro anni. Eccoci qua, allora vediamo se riesco ora a mettere a tutto schermo di nuovo la nostra presentazione. Perfetto, posso eliminarmi, auto eliminarmi. Non eliminarti che poi bisogna indagare. Allora la storia che vi voglio raccontare oggi, vi voglio leggere, è una storia scritta da un autore svedese che si chiama Stig Dagerman e in un certo senso ci introduce al senso delle storie. Quel senso che mi piace spesso ricordare è fondamentale anche per raccontare qualsiasi altra cosa che non sia fiction. Quindi più di tutto anche i brand che oggi hanno bisogno di mettere avanti il loro valore e il valore del loro prodotto, del loro stesso consumatore piuttosto che appunto vantarsi semplicemente dei vantaggi che danno. Questa è una storia che ci insegna, in un certo senso, come il nostro cervello accoglie le storie e si intitola Uccidere un bambino. È una giornata mite e il sole splende obliquamente sulla pianura. È domenica, tra poco suoneranno le campane. Fra i campi di segale due bambini hanno scoperto un sentiero che non avevano mai percorso e nei tre villaggi della piana luccicano i vetri delle finestre. Gli uomini si radono davanti a specchi appoggiati su tavoli da cucina e le donne canterellano affettando il pane per il caffè. E i bambini? I bambini si abbottonano le camicette. È la mattina felice di un giorno in Fausto perché in questo giorno, nel terzo villaggio, un bambino sarà ucciso da un uomo felice. Il bambino è ancora seduto sul pavimento e si abbottona la camicetta. L’uomo che si sta radendo la barba dice che oggi faranno una gita in barca sul fiume mentre la donna canterella e mette il pane appena affettato su un piatto blu. Non vi sono ombre nella cucina e l’uomo che ucciderà un bambino si trova ancora vicino a una pompa rossa della benzina del primo villaggio. È un uomo felice che guarda dentro una macchina fotografica e nell’obiettivo vede una piccola automobile blu e accanto all’automobile una ragazza che ride. Mentre la ragazza ride e l’uomo scatta la bella fotografia, il benzinaio stringe il tappo del serbatoio e annuncia che avranno una bella giornata. La ragazza si siede nell’auto, l’uomo che ucciderà un bambino estrae il portafoglio dalla tasca e spiega che arriveranno al mare e al mare affitteranno una barca e poi andranno a remare a largo, molto a largo. Attraverso i finestrini abbassati, la ragazza sul sedile anteriore sente quello che dice e chiude gli occhi e ad occhi chiusi vede il mare e l’uomo accanto a lei nella barca. Non è certo un uomo cattivo, è felice e contento e prima di salire in macchina si sofferma un attimo davanti al radiatore che splende al sole a godere di quel luccichio e dell’odore di benzina e di biancospino. Nessuna ombra si proietta sull’auto, il paraurti splendente non ha nessuna macatura né la minima traccia rossa di sangue. Ma nello stesso momento in cui nel primo villaggio l’uomo dell’auto richiude la portiera di sinistra e tira verso di sé il pomello dell’avviamento, nel terzo villaggio la donna nella cucina apre la dispensa e si accorge che non c’è più zucchero. Il bambino che ha finito di abbottonarsi la camicetta e si è allacciato le scarpe è in ginocchio sul divano e guarda il fiume che serpeggia tra gli ontani e la barca nera tirata in secco sull’erba. L’uomo che perderà il suo bambino ha finito di radersi la barba e spiega al bambino tutto quanto e piega lo specchio. Sulla tavola ci sono il caffè, il pane, la panna e le mosche. Manca solo lo zucchero e la madre dice al suo bambino di correre dai Larson a chiederne in prestito qualche zolletta e quando il bambino apre la porta l’uomo gli grida di far presto che la barca è sulla spiaggia che aspetta e che devono rimane più lontano di quanto non abbiano mai remato e mentre corre attraverso il giardino il bambino non fa che pensare al fiume e alla barca e ai pesci che guizzano e nessuno lo avverte che gli restano soltanto otto minuti da vivere e la barca rimarrà dov’è per tutto quel giorno e per molti altri giorni ancora. I Larson non abitano lontano, appena dall’altra parte della strada. Mentre il bambino la attraversa correndo la piccola automobile blu entra nel secondo villaggio. È un piccolo villaggio di casette rosse e di gente appena sveglia che siede in cucina con la tazza del caffè in mano e vede l’auto che sfreccia al di là della siepe sollevando dietro di sé un’alta nuvola di polvere. Viaggia a gran velocità e l’uomo al volante vede i meli e i pali del telegrafo incatramati di fresco sfilarli accanto come ombre grigie. L’aria dell’estate soffia attraverso il parabrezza mentre escono sfrecciando dal paese e procedono veloci e sicuri al centro della carreggiata. Sono soli sulla strada per ora. È meraviglioso viaggiare così soli su una strada ondulata e larga. È in pianura, è ancora più bello. L’uomo è felice, forte, col gometto destro sente il corpo della sua donna. Non è certo un uomo cattivo, non farebbe male a una mosca, ma tra qualche istante ucciderà un bambino. Mentre sfrecciano verso il terzo villaggio la ragazza chiude di nuovo gli occhi e per poco dice che non gli aprirà fino a che non si vedrà il mare e sogna, al ritmo del dondolio dell’auto, quando l’apparirà splendente, succede tutto. Perché la vita è congegnata così spietatamente che un minuto prima di uccidere un bambino, un uomo felice è ancora felice e un minuto prima di urlare di terrore una donna può chiudere gli occhi e sognare il mare e nell’ultimo minuto di vita di un bambino i suoi genitori possono stare seduti in cucina ad aspettare lo zucchero e a parlare dei suoi denti bianchi e di una gita in barca e il bambino stesso può chiudere un cancello e lanciarsi attraverso una strada con delle zollette di zucchero avvolte in carta bianca nella mano destra e per tutto quest’ultimo minuto non vedere altro che un lungo fiume scintillante con grandi pesci e una grande barca con i remi silenziosi. Dopo è troppo tardi, dopo c’è una macchina blu di traverso sulla strada e una donna che urla si leva una mano sulla bocca e la mano sanguina, dopo un uomo apre la portiera di un’automobile e cerca di reggersi sulle gambe nonostante l’abisso di orrore che ha dentro di sé, dopo ci sono delle zollette di zucchero bianche assurdamente sparse nel sangue nella ghiaia e un bambino giace inerte sul ventre con il volto brutalmente schiacciato contro la strada, dopo accorrono due persone pallide che non sono ancora riuscite a bere il loro caffè e si precipitano verso un cancello e quello che vedono non lo dimenticheranno mai perché non è vero che il tempo guarisce tutte le ferite, il tempo non guarisce le ferite di un bambino ucciso ed è molto difficile che guarisca il dolore di una madre che ha dimenticato di comprare lo zucchero e manda suo figlio dall’altra parte della strada a chiederlo in prestito ed è altrettanto difficile che guarisca l’angoscia di un uomo un tempo felice che ora l’ha ucciso perché chi ha ucciso un bambino non va più al mare, chi ha ucciso un bambino guida lentamente verso casa in silenzio e accanto a sé ha una donna muta con una mano fasciata e in tutti i villaggi che attraversano non vedono più un solo uomo felice, tutte le ombre sono cupe e quando i due si separano sono ancora in silenzio e l’uomo che ha ucciso un bambino capisce che quel silenzio è il suo nemico e che gli ci vorranno anni della sua vita per sconfiggerlo gridando che non è stata colpa sua, ma sa anche che questa è una menzogna e la notte nei suoi sogni si struggerà di poter avere indietro un unico minuto della sua vita per far sì che quest’ultimo unico minuto possa essere diverso, ma la vita è così spietata con colui che ha ucciso un bambino che dopo è troppo tardi per qualsiasi cosa. E questo è stickdaggerman, è uccidere un bambino. Perché vi ho torturato con questa storia? Io sono estasiato. Fantastica. Ci siete? Siete tutti in piedi? Sì. Non avete spento perché era troppo. Ok ci siamo, ci siamo. Questa storia ci insegna che per quanto la strada sia segnata, come dice la slide, noi siamo capaci di vivere questa strada segnata sempre e comunque con la stessa passione, come se fosse la prima volta. Mi avete sentito? Mentre leggevo facevo fatica ad andare avanti. Questo è uno dei racconti che io utilizzo anche in formazione nel marketing per far sentire quanto è potente la narrazione, quanto la narrazione coinvolga contemporaneamente la nostra ragione e le nostre emozioni. E questa è la vittoria straordinaria che hanno le storie su di noi. E c’è un motivo. Il motivo lo abbiamo prima provato, l’abbiamo sentito. Io penso che tutti noi, mentre leggevo questo racconto, non perché io sia un grande lettore, ma perché il racconto ha una forza straordinaria, abbiamo provato sia questo momento struggente di attesa, sapendo quello che sarebbe accaduto. Quindi abbiamo viaggiato nel tempo, perché sapevamo come sarebbe andata a finire, fin dal titolo, che si intitola Uccidere un bambino, questa storia. E dall’altro lato abbiamo atteso fino alla fine per sapere che cosa sarebbe successo. E mano a mano che andavamo avanti abbiamo provato sentimenti contrastanti, sentimenti che hanno i nomi anche di sostanze che il nostro cervello produce. Ma ora ci arriviamo. Perché abbiamo bisogno di raccontarci le storie? Eccoci qua. Ecco perché abbiamo bisogno di raccontarci le storie. Se mi fa la cortesia di andare avanti questa slide. Eccoci qui. Questo signore che vedete si chiama Michael Gazzaniga. Dal 1960 in poi ha fatto diversi esperimenti sul cervello, nello specifico ha lavorato con i cosiddetti pazienti split brain. Cosa sono? Sono delle persone che per un motivo o per l’altro, per un incidente, per una malattia grave, hanno subito la rescissione dei due emisferi del cervello. Quindi in pratica le loro due parti del cervello non comunicano più tra di loro, svolgono ancora le loro funzioni ma non riescono a interagire. Cosa ha scoperto Gazzaniga insieme a Ledoux, che è un altro dei suoi collaboratori straordinario scienziato, durante un esperimento su uno di questi pazienti split brain? Molto semplice, che una parte del nostro cervello è specificatamente deputata a raccontarsi e raccontare la realtà. Ovvero quella famosa vocina interiore che noi spesso nominiamo come se fosse la nostra coscienza, o in generale ci può capitare di sentire in alcuni momenti perché di fatto è come se qualcosa parlasse dentro la nostra testa costantemente. Bene, quella famosa vocina esiste e loro l’hanno chiamato l’interprete e ne hanno, diciamo, misurato l’esistenza in un modo molto interessante. Il nostro emisfero destro vede ma non parla, il nostro emisfero sinistro parla ma non vede. Quindi loro hanno dato un comando visivo al cervello che teoricamente avrebbe potuto spingere il soggetto split brain a ridere e il soggetto ha riso, si è messo a ridere. Ma nel momento in cui loro hanno chiesto al soggetto per quale motivo stai ridendo, il soggetto ovviamente non avendo i due lati del cervello comunicanti non sapeva cosa aveva visto e si è inventato una storia. Ha detto sto ridendo perché siete molto buffi, quando in realtà si era messo a ridere per via della foto di un bambino che sorrideva. Ecco, cosa succede allora nel nostro cervello quando pratichiamo un’azione, quando vediamo qualcosa, quando dobbiamo necessariamente portare avanti la nostra azione umana? Semplicemente il nostro emisfero sinistro, secondo Gazzaniga, si spiega il mondo e se lo spiega quasi sempre con una storia. Formuliamo costantemente teorie, psicologia generale si chiamava significazione, si chiama ancora significazione, cioè cerchiamo di dare un significato al mondo che ci circonda. Questo è quello che accade con il nostro cervello. Di fatto noi ci raccontiamo storie prima di tutto perché dentro il nostro cervello c’è un nano che racconta storie, un nanetto che racconta storie, sta lì dentro e si chiama l’interprete, secondo Gazzaniga, è il nostro emisfero sinistro.

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